In questo sportello facciamo politica perché parliamo di diritti
Arci Spazio Condiviso, Calolziocorte (LC)Calolziocorte (LC). Quando Daniele Vanoli ha iniziato a far politica aveva da poco compiuto sedici anni. Militava per vari partiti politici poi, nel 2014, stanco delle dinamiche della politica nazionale, ha scelto di farlo in un altro modo, dedicando parte del suo tempo alle persone in difficoltà nel territorio dove è cresciuto. A maggio 2017, insieme a un gruppo di persone, decide di riaprire l’Arci di Calolziocorte, un circolo storico chiuso da tempo.
“Quando abbiamo riaperto volevamo che questo posto fosse uno spazio di supporto ma anche un luogo dove le persone potessero sentirsi a casa”, ricorda Daniele, mentre prepara sedie e tavoli, in vista dell’apertura dello sportello. “Quando il Covid-19 è arrivato, ci siamo resi conto che laddove le istituzioni non arrivano, c’eravamo noi”. Nell’ultimo anno e mezzo, seppur chiuso, il circolo Arci è rimasto sempre aperto, con lo sportello di ascolto “AscoltArci”, con la distribuzione dei pacchi alimentari e con tutta una serie di servizi di microcredito e di supporto nella ricerca del lavoro, della casa (attraverso una informativa puntuale sui bandi ERP regionali) e nella regolarizzazione delle persone straniere.
Da decenni, Calolziocorte, paese di 15mila abitanti affacciato sul lago di Olginate, è abituato all’arrivo di migranti. Prima meridionali, soprattutto calabresi, oggi da diversi Paesi, come Marocco, Senegal, Egitto, Costa d’Avorio ed est Europa. Mohammed, 33 anni, originario di Algeri, è uno di coloro che all’Arci Spazio Condiviso ha trovato una seconda casa. Ha ricevuto un prestito grazie al progetto di microcredito mutualistico (prestito etico sociale) per pagarsi le cure odontoiatriche e, in cambio, collabora nella distribuzione dei pacchi alimentari alle famiglie più vulnerabili. “Quando non hai nessuno e trovi qualcuno che ti aiuta”, racconta Mohammed, con una punta di timidezza, “è davvero, davvero confortante perché ti fa sentire meno solo”.
All’Arci Spazio Condiviso sono tutti volontari e la struttura è condivisa da altre realtà del territorio, come l’associazione comunità Il Gabbiano. L’obiettivo è provare a offrire servizi in rete, raggiungendo così un numero maggiore di persone in difficoltà. Ed è con questo spirito di mutuo-aiuto che durante il primo lockdown i volontari e le volontarie dell’Arci hanno supportato la Caritas locale nella gestione e distribuzione di pacchi alimentari. Più di 100 famiglie raggiunte ogni mese in un territorio di periferia che lambisce la città, un tempo definita la “Manchester d’Italia” per la presenza storica di aziende manifatturiere e delle trafilerie. Oggi la provincia di Lecco continua ad avere uno dei tassi di disoccupazione più bassi d’Italia – 5,2% nel 2020 secondo i dati dell’Osservatorio provinciale del Mercato del lavoro lecchese e dell’Istat – ma le fragilità sul territorio aumentano.
“Le fragilità che abbiamo riscontrato sono soprattutto quelle legate alla questione della casa, dell’abitare, dell’assenza di un lavoro dignitoso e la questione migratoria. Spesso questi problemi si intrecciano, quindi chi arriva qui con un problema lavorativo o di permesso di soggiorno, ha anche un problema legato alla casa”, spiega Daniele che, tiene a ribadire, come questo luogo, dove il tempo sembra essersi fermato negli anni Settanta, sia un luogo che accoglie tutti, stranieri e italiani. “Una grande fetta delle persone che vengono qui sono donne, italiane, che ci hanno chiesto una mano su problematiche famigliari legate alla violenza domestica o al divorzio. Così ci siamo messi in rete con il Telefono Donna di Lecco e abbiamo costruito un servizio attorno allo sportello grazie alla condivisione di una volontaria”.
Mentre Daniele ci parla con passione delle attività portate avanti dal circolo, gli altri volontari si preparano ad accogliere le prime persone. Sono le diciotto di un torrido pomeriggio di fine giugno. L’aria è tersa ma si annusa il profumo di pioggia che scende dalle montagne, non molto distanti da qui. Il primo ad entrare è un padre di famiglia T.M., originario del Senegal, 45 anni e nove figli. È appena uscito dal turno in fabbrica, indossa un giubottino catarifrangente arancione, occhiali da vista e tra le mani ha una cartellina colma di documenti. Chiede informazioni sulla procedura per accedere agli alloggi popolari e per regolarizzare sua moglie. Una condizione comune a molti stranieri presenti sul territorio.